Dalla parte della Glaucopide

Forse il personaggio più odiato dell'intero romanzo.
E' la dottoressa che prende in carico Caterina nel corso del primo, lunghissimo ricovero in ospedale e, in una certa maniera, rappresenta quella particolare classe medica che basa le proprie convinzioni solo sull'evidenza dei fatti (in questo caso, i fatti sono rappresentati dall'esito negativo degli esami).
Una donna decisa e tutta d'un pezzo, che non cede, che non cambia idea, che abbraccia una determinata convinzione e la porta avanti a oltranza.
A suo insindacabile giudizio, gli svenimenti e persino le convulsioni di Caterina non hanno alcuna origine fisica: la ragazza somatizza in questo modo un disagio, forse finge per saltare le interrogazioni a scuola; l'origine del malessere è da ricercare sul piano meramente psicologico. Nient'altro.


“La ragazza non ha nulla. Non di fisico, almeno” ripeteva. “Ho una mia idea. Tutto sta, adesso, verificarla.”
Il sospetto che la sua idea fosse sbagliata in partenza non la sfiorò mai.
Così, giorno dopo giorno, con precisione nauseabonda, mi spediva di stanzino in stanzino, a colloquio. Era convinta che, prima o poi, avrei ceduto e raccontato la verità.
Non ho mai capito quale desiderasse che fosse.
 
 Rappresenta la forbice in grado di tagliare di netto Caterina. La gomma bianca che cancella la sua adolescenza, trasformandola in un foglio ancora tutto da scrivere: niente più fiorellini, cuoricini o faccine sorridenti disegnate col pennarello. Solo un foglio vuoto, di carta velina, pronto a strapparsi.
Da un giorno all'altro, diventa il nuovo perno attorno al quale ruota l'intero mondo della sedicenne protagonista, che vede profilarsi all'orizzonte lo spettro di una malattia quasi certamente psichiatrica, che già si immagina bollata come pazza: paure e terrori che la porteranno a isolarsi sempre di più, a chiudere a chiave la propria voce per timore che le proprie parole possano auto-condannarla.
La Glaucopide, pur senza volerlo, spinge Caterina all'angolo e le regala una visione del futuro fredda e priva di speranza.
Ma ha davvero solo lati negativi?
Oggettivamente, per scovare in lei qualcosa di positivo bisognerebbe mettercisi un pochino di impegno... Ma non è Belzebù. Non incarna nemmeno la malasanità.
Nel romanzo, non esiste una condanna nei confronti dell'operato di questo medico.

 
  "Se non fosse stato per lei, dopotutto, chi mi avrebbe portato a scoprire che la fenice può rinascere dalle proprie ceneri, chi mi avrebbe mostrato che il mondo non era costituito da me sola? Se non fosse stato per i ricoveri, in quale altro modo avrei potuto apprezzare la libertà? E se non fosse stato per i miei silenzi di allora, dove mai avrei trovato le parole?"
 
L'epilessia è davvero un male oscuro.
In assenza di traumi fisici riscontrabili tramite i principali esami clinici (elettroencefalogramma; TAC; RNM) è realmente difficile stilare una diagnosi di questo tipo.
E la mia Caterina non mostrava alcun "segnale chiaro" (leggi: fisico) che si trattasse di epilessia.
Era un'incognita. Una delle tante. Un'anomalia.
 
 
IL SEME DEL DUBBIO
 
Una volta uscita dall’ospedale, presi in mano la seconda lettera di dimissioni. Non m’importava molto di quello che avrei trovato scritto. Era solo curiosità, come quando cammini e vedi uno specchio. Gli getti un’occhiata, mentre continui per la tua strada.
La Glaucopide descriveva le circostanze del mio ricovero quali s. crisi convulsiva.
Risultava che a scuola fossi stata vittima di un fenomeno di contrattura generalizzata tonico-clonica, in piena coscienza, con inarcamento del bacino. Pseudo-crisi, la definiva. Riconducibile ad un episodio di ansia reattiva. Il referto dell’elettroencefalogramma evidenziava note di instabilità non meglio specificate. Seguiva il referto delle visite psichiatriche al -1. Menzionavano il fatto che non fossi una persona socievole e che fossi portata a tenermi tutto dentro.
Adolescente, scrivevano. Nient’altro.
Capivo che la Glaucopide potesse sentirsi un po’ scoraggiata.
Dall’ultima volta, la diagnosi era cambiata. Adesso dichiarava: lipotimia psicogena.
Andai a cercare il termine sul vocabolario. Era sinonimo di svenimento. Si trattava di uno stato di profondo malessere, accompagnato da astenia, obnubilamento della vista, nausea, pallore, sudorazione profusa, respiro soporoso.
Senza perdita di conoscenza.
Era una contraddizione in termini.
Non era aderente né a quanto scritto dalla Glaucopide fino a quel momento, né a quanto raccontato da Daniele e dai compagni che, a scuola, avevano assistito alla crisi. Medici e psicologi seguitavano a ripetere, inoltre, che il mio volto non si faceva pallido, ma rosso.
Ripresi a leggere la grafia sottile ed elegante della Glaucopide.
Pur continuando a ritenere che le mie crisi fossero di genere psicogeno, mi prescriveva di iniziare una terapia antiepilettica a dosaggio minimo.
Epilessia?
E questo, da dov’era saltato fuori?
Non aveva alcun senso.
Forse le stava davvero provando tutte.
 
Non è un romanzo privo di speranza.
Il futuro non è freddo e scuro come gli atteggiamenti della Glaucopide avevano voluto presentarlo.
Perché esiste un punto di svolta.
Perché, dopo due anni di Calvario, qualcuno riesce a dare un nome alla malattia che fa precipitare (moralmente... ma non solo) Caterina a terra:


Niente è mai quello che sembra. Niente è mai come te lo aspetti. Anche Seneca sembrava tanto bacchettone e morigerato. Poi, leggevi le sue tragedie e ti ritrovavi in un film di Tarantino. Le certezze si sgretolano al primo soffio di vento. E tu rimani lì, come Dorothy, a chiederti quale ciclone questa volta ti riporterà in Kansas.Le maschere cadono.
Quella della collaboratrice della Glaucopide, per esempio, crollò quel giorno.
“Certo, epilessia.” Annuì con fare sapiente. “Come potevamo averne la certezza?” Certezza? “Insomma,” spiegò, restituendoci il referto. “benché gli esami non evidenziassero niente, il sospetto fondato che si trattasse di epilessia naturalmente c’era.” Fondato? Naturalmente? “Ma, senza un riscontro chiaro in mano, non potevamo esporci.”
“Il sospetto c’era?” ripetei tra i denti.
“Caterina,” disse “noi ci basiamo su fatti comprovati. E, nel tuo caso, fatti comprovati non ce n’erano. Non ce la sentivamo di esporci.”
Il verbo era cambiato.
Da non potevamo a non ce la sentivamo.
Minuzie semantiche, dal suo punto di vista. Come pronunciare psicologo al posto di psichiatra.
“Perché non mi avete spedita a fare una visita al centro per l’epilessia, allora?” chiesi. “Se non c’erano fatti comprovati… ma se davvero avevate questo dubbio, perché non avete pensato di sottopormi ad una visita specialistica?” Lei non rispose. Rimase incerta. Una frazione di secondo in più del necessario. “Avrebbe dovuto ammettere di essersi sbagliata” sibilai. Parlavo della Glaucopide, adesso. Non c’era bisogno di specificare il soggetto. Sentivamo la sua presenza, bianca e costante, come l’orso di Tolstoj. “Lo avrebbe mai fatto? Avrebbe mai ammesso di essersi sbagliata?”
“Caterina!” mi riprese mia madre.
“Lo avrebbe mai fatto?” ripetei.
Guardavo la dottoressa.
Rimasi immobile a fissarla fino a quando non distolse lo sguardo.
Senza rispondere alla domanda.

 
 
E allora, cerchiamo di capirlo insieme.
Cos'è l'epilessia?
Cosa comporta il vivere a braccetto con una patologia simile?


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